LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE,
SE SOSPENDI IL SAPERE SCOLASTICO"
creata il 30 luglio 2007 aggiornata il 30 gennaio 2010

 

 

Vieni da "Husserl" o dagli "Scettici", sei in "Epoché o fuorclusione"

Vuoi andare all'aggiornamento?

Prima parte: Contro l'epoché

E' difficile tenere un discorso sistematico sull'epoché, dato che neppure il suo reinventore - i primi inventori furono gli Scettici - ci è mai riuscito.

L'epoché si può dire in tanti modi:

Reduktion: riduzione (eidetica o trascendentale)

Ausser Geltung setzen = togliere validità o mettere fuori corso

Ausser Spiel setzen = mettere fuori gioco

Ausser Aktion setzen = disattivare

Ausschalten = disabilitare

Einklammern = mettere tra parentesi.

Non so quale di questi modi sia quello più giusto. Però credo di saper riconoscere quello che meglio degli altri porge la verità di una nozione tanto poco chiara e distinta quanto quella di epoché, che per altro gli Scettici non proposero per il suo valore intellettuale, ma morale, in quanto precondizione dell'atarassia, la loro impassibilità e imperturbabilità.

Scelgo ausser Geltung setzen. Quest'espressione indica l'operazione che toglie valore, svalorizza, invalida, svaluta, mette fuori corso un certo valore. Nei §§ 31 e 32 di Ideen I Husserl precisa il carattere redibitorio dell'epoché, affermando che la tesi disabilitata "è ancora lì, come ciò che messo tra parentesi è tra le parentesi o come ciò che è disabilitato è presente al di là delle connessioni che lo abilitano".

Husserl ha la giusta percezione che il logocentrismo sia fatto di connessioni, che porgono la verità delle cose e delle idee. (Cfr. Ricerche logiche. Prolegomeni, XI, 62). Per salvare la connettività del logos, - una volta terminate le Ricerche logiche - tenta di individuare una logica, diversa da quella aristotelica, che più e meglio di quella rispetti le connessioni tra idee e tra cose. E inventa l'epoché. Poteva andargli meglio.enta

Nella Prima lezione di Asciano, sulla Fallacia logocentrica, dimostro che la logica aristotelica non salva le connessioni. Infatti, dei tre principi logocentrici – identità, non contraddizione e terzo escluso – il terzo escluso non vale in spazi topologici connessi. Ma la logica di Husserl, sviluppata nelle sei Ricerche logiche e conclusa con le Idee, mira alle essenze. Perciò è inadatta a trattare questioni di topologia. Da buon umanista, Husserl preferisce lavorare in intensione più che in estensione, perché così ha imparato a Vienna alla scuola aristotelica di von Brentano (dimenticando quel che aveva appreso alla scuola del matematico di Berlino, Weierstrass). E non si accorge di cadere nelle trappole autoreferenziali, che lui stesso si tende. Poi, una volta caduto, per consolarsi le chiama paradossi.

Epoché o messa fuori corso. In logica la svalutazione, che tocchi i valori di verità, diventa un'operazione irreversibile. Togli valore alla verità e togli ogni possibilibità di imbastire una logica. In logica i valori di verità si possono indebolire, ma non annulare. Indebolire, si può fare in tanti modi, per esempio attenuando la contrapposizione tra vero e falso (logica intuizionista) o aumentando il numero di valori di verità (logiche polivalenti). Ma i valori di verità non si possono definitivamente "togliere dalla circolazione". Se li togli, magari mantenendo in portafoglio i valori scaduti come se fossere monete fuori corso, decade la logica stessa, come attività ordinatrice del pensiero. Le Idee fanno decadere il già precario e fragile lavoro delle Ricerche logiche.

L'epoché è esattamente questo: la messa fuori corso di ogni forma di logica.

Le premesse di questa "riduzione" sono già implicite nelle Ricerche logiche, in particolare nella Prima. Le si avvertono nella proposta di trattare come sinonimi "senso" e "significato", lasciando decadere la distinzione fregeana tra Sinn (senso, connotazione, intensione) e Bedeutung (significato, denotazione, estensione). In proposito Frege è chiaro: Bedeutung va distinto da Sinn, in quanto il primo, e non il secondo, ha un "valore di verità", per esempio in riferimento all'oggetto e addirittura come oggetto esso stesso. Riducendo Sinn a Bedeutung si toglie valore alla verità stessa.

Husserl si vanta della propria riduzione e non manca di farlo notare, quasi fosse titolo di merito. Rimprovera a Cartesio di non aver coinvolto la logica nel proprio dubbio iperbolico. Ma proprio qui, pretendendo di essere più cartesiano di Cartesio e "riducendo fenomenologicamente" anche la logica, Husserl prende lucciole per lanterne. Husserl non capisce che non fu una svista di Cartesio il non aver dubitato della logica. Nel trattare il dubbio, infatti, Cartesio usa una logica ben precisa e indubitabile: non aristotelica, ma epistemica. In particolare, usa una logica intuizionista. Sospende implicitamente il principio del terzo escluso, come farà esplicitamente tre secoli dopo Brouwer, senza dire che è falso. Infatti, quando dubita, Cartesio non mette tra parentesi i valori di verità, semplicemente perché è vero che sta dubitando. Anzi, in quel momento non c'è niente di più vero del dubbio. Soggettivamente parlando, Cartesio non solo non fuorclude la verità, come sostengono i lacaniani, e neppure la getta nel trascendente, come sostengono gli empiristi, ma la conserva come verità immanente al dubbio. Per ritornare alla fonte della propria verità, al soggetto della scienza basta tornare al dubbio originale. Ma non per dubitare di esso, come fa Husserl, che ne cancella ogni verità, bensì per trarne nuove occasioni di verità..

Oggi, grazie anche a Brouwer, sappiamo che il dubbio cartesiano, al di là del travestimento retorico iperbolico, è semplicemente una variante epistemica del principio del terzo escluso: o so o non so. Nel dubbio viene indebolita, ma non abolita, la verità dell'alternativa epistemica: sapere/ignoranza. Il terzo escluso epistemico ora assume le veci del sapere. Infatti, se so, so, e se non so, so ancora qualcosa, cioè di non sapere. Questa mossa inaugura la possibilità di definire un operatore "sapere", per cui vale il teorema di Cartesio:

se non so, allora so.

Di tutto lo sforzo epistemico di Cartesio per costruire il soggetto della scienza, a partire dal dubbio, senza uscire dalla verità, nel preteso neocartesianesimo di Husserl (nonché nelle varianti psicanalitiche della fenomenologia alla Lacan) non resta la benché minima traccia. Come in molti altri casi, il tanto decantato "ritorno a" si materializza nel tradimento dell'autore a cui si pretende far ritorno. La supposta scienza rigorosa dei fenomeni è una bufala prescientifica. Riedita la fisica di Aristotele. Husserl pretende di far ritorno a Cartesio. In realtà ritorna al nemico di Cartesio: Aristotele, il filosofo del senso comune. Scherzi dell'amoreodio.

Del discorso che precede si può dare una versione più stringente, che mutuo da un epigono della fenomenologia: Lacan.

Husserl fuorclude la verità.

Lacan non lo dice così. Con tipica inversione paranoica, Lacan attribuisce alla nemica della fenomenologia - la scienza positivista - la colpa di cui lei stessa è responsabile. Non è la fenomenologia, ma la scienza a fuorcludere la verità - in particolare, la verità del soggetto, sostiene il lacaniano. E qui va precisato subito che si tratta del discorso dell'analfabeta scientifico, che non ha esperienza di prima mano di scienza e fa confusione tra scienza ed epistemologia positivista. A me va bene combattere l'epistemologia positivista, secondo cui la scienza è conoscenza oggettiva, deterministica e senza soggetto. Non mi va bene confondere quella ormai decaduta filosofia (che forse non vale più la pena di attaccare) con la pratica scientifica attuale del soggetto della scienza, che ha poco a che fare con il cognitivismo positivista.

E tanto per avviare un discorso con i piedi sui piedi e la testa nella testa, correggo Lacan e affermo:

Con l'epoché la fenomenologia fuorclude la verità..

*

Seconda parte: A favore dell'epoché.

Fermo restando quanto sopra acquisito, quella che segue è una debole difesa dell'elucubrazione husserliana. La motivazione occasionale è data dall'oppotunità di chiarire uno pseudoproblema, che Husserl ci ha lasciato in eredità: i paradossi della soggettività, di cui parla nel § 53 della Crisi. In generale i paradossi non sono gran cosa. Sono semplicemente l'artefatto della logica usata, in questo caso della "logica" senza verità. Non segnalano nulla di ontologicamente rilevante. Testimoniano solo che lo strumento logico che stiamo usando è spuntato e che non fa presa epistemica. Il valore della mia difesa d'ufficio dell'epoché consiste nel tentativo di reintrodurre un po' di logica, là dove Husserl volle far terra bruciata di ogni forma di pensiero, nell'illusione tipicamente ossessiva che dopo avrebbe trovato il vero pensiero "rigoroso".

Una formulazione un po' più rigorosa di quella escogitata da Husserl, anche se non del tutto rigorosa, dell'epoché potrebbe essere la seguente.

A è l'enunciato: "esiste il mondo".

phi è il predicato: "dico che".

phi(A) è l'enunciato: "dico che esiste il mondo".

A questo punto si può formulare una variante soggettiva del principio del terzo escluso. Non è un teorema ma una congettura ragionevole:

phi(A) vel phi(non A),

ossia: o dico che il mondo esiste o dico che il mondo non esiste .

Applicando la doppia negazione, ottengo:

non non (phi(A) vel phi(non A)).

Per la legge di de Morgan posso scrivere:

non (non phi(A) et non phi(non A)).

Finalmente il risultato dell'epoché si legge: "non è vero che nego sia l'esistenza del mondo sia la non esistenza del mondo, ma..."

Insomma, se tutto va bene, l'epoché è il tentativo rozzo e infelice di introdurre una terza possibilità tra affermare (negare) l'essere e affermare (negare) il non essere. Certo, la mia versione non sarebbe piaciuta a Husserl, perché non tratta dell'essenza ma dell'esistenza. Anche Heidegger realizzò il passaggio dal Sein al Dasein e la cosa non piacque a Husserl. (Benché Heidegger conservasse l'esistenza come l'essenza dell'esserci). Ma di questo non mi curo. L'ontologia è la malattia cronica del filosofo. Seppure medico, non ho le medicine per curarla

***

C'è una penultima considerazione a difesa dell'epoché. Ed è che essa - non sappiamo quanto intenzionalmente da parte di Husserl - difende il logocentrismo aristotelico (di cui la fenomenologia è un'avatar).

Nella prima lezione di Asciano - intitolata La fallacia logocentrica - mostro che il logocentrismo, fondato sui classici assiomi di identità, non contraddizione e terzo escluso vale solo in spazi non connessi. In spazi connessi il principio del terzo escluso decade. L'epoché avrebbe, allora, questo compito conservatore: creare spazi non connessi, dove ogni verità è separata dalle altre, dove le parentesi tagliano le connessioni epistemiche e ogni verità, prima che garantita dal legame con le altre, è stabilita e protetta dal principio di autorità. Lì, in questi spazi non connessi, finalmente in pieno regime superegoico del divide et impera, il logocentrismo può essere riattivato in forma piena, benedetto dai sacri principi di identità, non contraddizione e terzo escluso.

Tutto ciò andrebbe tenuto costantemente ben presente. Perché - riconosciamolo, compagni! - l'epoché esercita un fascino non da poco su noi analisti. Ci richiama ingenuamente a qualcosa di arcaico e prelogico, di cui viviamo sempre la nostalgia fusionale. A uno stadio più riflessivo e ponderato ci sembra che "la messa tra parentesi" unifichi le regole fondamentali della nostra pratica, sia quella dalla parte dell'analizzante ("comunicare tutto senza criticare e senza sistematizzare"), sia dalla parte dell'analista ("ascoltare tutto con attezione ugualmente sospesa"). Ci viene da pensare che la riduzione all'essenziale sia la matrice dell'intersoggettività autentica e dell'empatia transferale e controtransferale, nonché l'inizio della soluzione di tutti i problemi etici e politici di convivenza. E così via, la sirena fenomenologca continua a cantare.

Tornando con i piedi per terra, non posso negare le affinità di pensiero e di posizione morale tra Husserl e Freud. Entrambi si sono formati con von Brentano, l'indimenticabile fondatore della psicologia empirica. Entrambi hanno affrontato il "compito infinito" (unendliche Aufgabe), rispettivamente della fenomenologia e della psicanalisi. Entrambi hanno scoperto la "divisione dell'Io": tra Io naturale e trascendentale, il primo, tra Io conscio e inconscio, il secondo. Ma uno è rimasto prescientifico e l'altro ha tentato - fallendo - la via della scienza. A mio parere il fallimento di Freud è probabilmente più fecondo della riuscita di Husserl. L'epoché genera il vecchio logocentrismo sotto nuove spoglie, apparentemente cartesiane; le regole analitiche producono quella che sarà la "nuova scienza", come la chiamava Freud, esprimendo un Wunsch insoddisfatto. Il logocentrismo ha paralizzato la filosofia contemporanea, costringendo sia l'ermeneutica continentale sia l'analitica anglosassone a diventare dei moulin à paroles, discorsi afasici senza oggetto. (Afasia fluente, naturalmente). Vogliamo ridurre la psicanalisi a tanto?

Allora, un consiglio, compagni:

Mettiamo tra parentesi l'epoché.

E in particolare ai compagni lacaniani:

Dimentichiamo la fuorclusione e tutto il logocentrismo che essa implica.

L'epoché nell'estetica.

C'è una tradizione in Italia, inaugurata da Dino Formaggio e proseguita dai suoi allievi - a Milano Elio Franzini - di estetica fenomenologica. La cosa non è insensata. La fenomenologia è una filosofia senza verità. L'arte, in quanto pratica del bello, è senza verità. L'estetica, in quanto pratica l'arte, può essere fenomenologica, cioè senza verità. Ma non saprei dire di più.

Terza parte: Né contro né a favore dell'epoché.

Lasciando cadere il termine di epoché non si perde molto. Il matematico possiede un metodo ben preciso per ottenere effettivamente i risultati che l'epoché presume di ottenere. Si chiama procedimento assiomatico. Fissando a priori degli assiomi e delle regole per deurre teoremi da essi, si fa automaticamente piazza pultita da significati impliciti, introdotti surrettiziamente dalla riflessione ingenua. Certo, la sintassi non esaurisce la semantica (teoremi di incompletezza). Ma almeno non produce gli sterili paradossi della soggettività che è nel mondo e trascende il mondo.

*

Quarta parte: La svolta naturalista della fenomenologia

Oggi assistiamo a un rilancio naturalista della fenomenologia a opera soprattutto di Francisco Varela con la sua neurofenomenologia e di Jean Petitot con il suo programma di convergenza con le scienze cognitive e naturali. La cosa non va da sè. Non contrasta con le posizioni di Husserl, originariamente ostile all'atteggiamento naturale? Dimostro che no e che tale svolta porge la verità della fenomenologia.

Questa verità sta scritta già da 65 anni nelle prime pagine della premessa di Merleau-Ponty alla sua Fenomenologia della percezione:

"Il mondo è là prima di ogni analisi che io possa farne" (M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), trad. A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano 1965, p. 18).

Il mondo, cioè, è il dato originario, che nessuna epoché potrà mai sospendere. Dall'essere nel mondo all'essere tout court, dall'ontologia derivano tutte le difficoltà, le aporie e i pseudoparadossi, che Husserl incontra nella Crisi delle scienze europee nel tentativo di eseguire l'epoché trascendentale, massima performance epistemica da lui tentata. Infatti, con il suo atteggiamento mondano e naturale il mondo rimane sempre lì come residuo insolubile rispetto ad agni analisi trascendentale. La difficoltà è intrinseca e concettualmente insuperabile, perché l'epoché si presenta sì nelle vesti di operazione cartesiana, che generalizza il dubbio di Cartesio, ma è solo la copertura epistemologica estrinseca di una filosofia precartesiana, che presuppone il primato dell'essere - nel mondo - sul sapere. Husserl misconosce la precedenza del sapere sull'essere, fingendo di riconoscerla con un'epoché che esteriormente mima l'andatura dell'io filosofante cartesiano. Con l'essere nel mondo l'essere riprende il timone del discorso filosofico, abbandonando la rotta cartesiana, che approda a una concezione del mondo come costruzione intellettuale (Mundus est fabula). Con il plauso del potere e dell'accademia ad esso asservita. Per mantenere sotto controllo i propri traffici al padrone il timoniere fenomenologico va meglio dell'errabondo pellegrino cartesiano.

La marca distintiva dell'operazione husserliana è "chiara e distinta". Esiste una differenza logica di fondo tra il dubbio cartesiano e l'epoché husserliana. Il dubbio cartesiano riconosce un'iniziale valore di verità al sapere: ogni sapere, essendo revocabile in dubbio, è inizialmente falso, cioè non saputo con certezza. L'ignoranza con cui il soggetto della scienza entra in scena ha un valore di verità, non importa che sia falso. Invece, con la sistematica Ausschaltung, l'epoché husserliana depriva il sapere di ogni valore di verità. Nell'approccio fenomenologico il sapere non ha più diritto alla verità. In fenomenologia il sapere non è né vero né falso, perché i valori di verità competono aristotelicamente solo all'essere, in particolare all'essere nel mondo, che è il primum verum.

Si può fare scienza a partire da posizioni fenomenologiche?

La domanda mi è suggerita dalla pesantemente negativa recensione di Frege alla Filosofia dell'aritmetica di Husserl (1894). La mia risposta è più che negativa. A mio avviso, la fenomenologia non supera il psicologismo, se con tale termine si intende, alla J. Stuart Mill, la tesi secondo cui l'esperienza interiore dei nostri stati psichici costituisce l'origine di ogni conoscenza. Il fenomenologo rimane sostanzialmente psicologista, anche quando nei Prolegomeni delle Ricerche logiche contesta pubblicamente lo psicologismo, ma rimane psicologista in privato. Il fenomenologo naviga lontano dall'approccio scientifico, se è vero che, da psicologista, fa dipendere ogni conoscenza del mondo dalle vicende interne al soggetto, epoché compresa. In questa luce, l'epoché sarebbe il tentativo psicologistico di sospendere e superare lo psicologismo. Credo, insomma, che non si possa fare della scienza cartesiana a partire dalla fenomenologia, se in ultima analisi la fenomenologia resta uno psicologismo, magari attraversato dalla preoccupazione di guadagnare il soggetto trascendentale. I neofenomenologi della svolta naturalista, che oggi espongono programmi intitolati alla Mente fenomenologica (cfr. Gallagher e Zahavi, 2008), testimoniano che già un secolo fa lo psicologismo era il fondamento della fenomenologia. Lo psicologismo del programma della mente fenomenologica – mirante a una scienza in prima persona, secondo gli autori – costituirebbe una sorta di ritorno dello psicologismo rimosso – ritorno prodotto dalla fallimentare rimozione tentata dalle Ricerche logiche (1900).

Dal punto di vista esposto in questo sito, inoltre, non è difficile riconoscere che la fenomenologia, ammettendo la precedenza dell'essere sul sapere, può solo conoscere quel che c'è. Il programma fenomenologico è e resta l'adequatio rei et intellectus, la più antica e mai decaduta forma di psicologismo. Per contro, la scienza, che presuppone la precedenza del sapere sull'essere, mira a costruire quel che non c'è, nella fattispecie l'oggetto infinito. Non c'è traccia di riflessione laica sull'infinito nelle 56.000 pagine dell'archivio Husserl. (Sono gradite smentite, non avendo avuto accesso a tutte quelle pagine).

Do un semplice dato testuale a conferma dell'ipotesi di fondamentale analfabetismo scientifico della fenomenologia. Per esempio, la fenomenologia misconosce Darwin. Nel libro che raccoglie le lezioni sulla natura, tenute tra il 1956 e il 1960 da Merleau-Ponty al Collège de France (cfr. M. Merleau-Ponty, La natura (1995), a cura di M. Carbone, Cortina, Milano 1996), Darwin viene citato solo due volte: la prima volta come citazione di citazione (p. 219), la seconda con una citazione incompleta (p. 353). Però il fenomenologo pretende tenere un discorso rigoroso sulla natura. Come si può fare scienza della natura senza Darwin? Si può e non è difficile. Basta partire da Aristotele, applicando la sua scolastica delle essenze, ormai patrimonio del senso comune. Se digiti "Husserl Darwin" su Google trovi un solo contributo, quello di Barry Smith, che mette insieme Husserl e Aristotele (questo è giusto) con Darwin! Le categorie dello Stagirita con il discorso antiessenzialista del moderno evoluzionista! Risultato: il fenomenologo regredisce dalla scienza alla conoscenza. Esce dall'epistemologia e fa ritorno all'ontologia. Con un luogo comune si può dire che la fenomenologia è un lupo ontologico travestito da agnello cartesiano.

Si spiegano, allora, tante cose, anche disparate. Si va dal tentativo di Heidegger di liberare il discorso sull'essere dall'ontologia dell'ente mondano, all'invenzione del manque-à-être da parte di Lacan, necessario a indebolire l'ontologia fenomenologica all'interno della cornice freudiana, alla nascita in Italia del "pensiero debole", che propone una soggettività non metafisica, fino alla recente convergenza tra fenomenologia e scienze cognitive in nome del primato dell'ontologia sull'epistemologia - il tutto dietro il paravento epistemologico dell'epoché, che fornisce alle operazioni fenomenologiche una parvenza di scientificità e di rigore.

Analogo discorso andrebbe fatto per l'ultima filiazione fenomenologica, figlia della Lebenswelt, che di nome fa biopolitica. La quale pretende di essere bio - termine che si vende anche al supermarket - senza riconoscere il dato scientifico della biodiversità, di rilevante valore politico, semplicemente elucubrando un discorso pretestuoso sulla sacertà della "nuda vita". A testimonianza della profonda affinità tra religione e fenomenologia, entrambi discorsi pesantemente ontologici.

Bisogna onestamente riconoscere che la situazione non è allegra. La fenomenologia è attualmente l'unico baluardo opposto dalle scienze umane, psicanalisi compresa, all'invasione di pseudoscienze, prodotta dalla "rivoluzione cognitiva" degli anni Cinquanta del secolo scorso (Chomsky). Le cosiddette scienze cognitive sono una contraddizione in termini in quanto confondono scienza e conoscenza. Non stupisce che il loro oggetto sia il nulla. "La prospettiva cognitiva - precisa Chomsky - considera il comportamento e i suoi prodotti [i testi] non come oggetti di studio, ma come dati che possono fornire indizi sui meccanismi interni della mente e sui modi in cui questi meccanismi operano nell'esecuzione delle azioni e nell'interpretazione dell'esperienza" (N. Chomsky, Linguaggio e problemi della conoscenza (1988), a cura di A. Moro, Il Mulino, Bologna 1998, p. 150). Il nulla cognitivo si chiama "mente", la cui esistenza è messa seriamente in dubbio dall'ipotesi freudiana dell'inconscio. Se, infatti, esiste un sapere che non si sa di sapere, è improbabile che esista un contenitore mentale che lo contenga. Ma tant'è. Freud non è più di moda. Bion, che poneva il problema del pensiero senza pensatore, è ridotto a girare la macina della psicoterapia e Massimo Piattelli Palmarini ha spazio per lanciare sul mercato il proprio manuale universitario di scienze cognitive, considerate come scienze "di ciò che sulla mente si comincia genuinamente a capire" (cfr. M. Piattelli Palmarini, Le scienze cognitive classiche: un panorama, Einaudi, Torino 2008, p. VII, corsivo dell'autore). Preso nella tenaglia tra mente cognitiva, che non esiste, ed essenze fenomenologiche, che esistono troppo, come può il soggetto della scienza trovare scampo?

Al soggetto cartesiano della scienza, forse, non resta che rifugiarsi nell'inconscio freudiano, un territorio ancora culturalmente vergine. Come le specie in via di estinzione per l'azione devastante di Homo cognitivus, pur di sopravvivere, il soggetto della scienza va all'inseguimento del proprio habitat.

(Torna a inizio pagina).

 

 

 

 

condo d

 

 

 

 

 

 

 

il predicato

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SAPERE IN ESSERE

SAPERE IN DIVENIRE

Torna alla Home Page